Nelle varie fasi del rapporto di lavoro, tra datore di lavoro-imprenditore e lavoratore dipendente, si contrappongono interessi diversi.
Il legislatore del codice civile ha previsto una serie di norme a tutela del datore-imprenditore a fronte della concorrenza e della divulgazione dei segreti e dei metodi produttivi da parte del lavoratore sia in corso di rapporto, sia alla cessazione dello stesso attribuendogli la facoltà eccezionale di poter comprimere, previo accordo tra le parti, il libero esercizio dell’attività professionale del lavoratore.
E’ in questa dualità di interessi che si estrinseca la ratio delle norme oggetto di questo breve excursus, tra i quali spicca l’ art. 2105 che impone al prestatore l’obbligo di non fare (divieto di concorrenza e obbligo di riservatezza) e ciò in ottemperanza al dovere di fedeltà che è obbligazione accessoria a quella principale di lavorare; di altrettanta rilevanza è l’art. 2125 cc. che prevede il patto di non concorrenza quale estensione dell’obbligo di fedeltà al termine del rapporto di lavoro proteggendo da un lato l’imprenditore da un’eventuale attività di concorrenza da parte dell’ex-dipendente e dall’altro il lavoratore imponendo la stipulazione del patto a limiti oggettivi; e infine l’art. 2596 cc. del generale divieto di concorrenza applicabile al lavoratore autonomo, nonchè l’art. 1751-bis che estende l’obbligo di non fare anche all’agente.
Ciò su cui lo scrivente vuole approfondire la sua analisi è il patto di non concorrenza di cui all’art. 2125, in base al quale il datore di lavoro dopo la cessazione del rapporto di lavoro in essere può limitare l’attività del prestatore, previo accordo tra le parti; tale patto produce i suoi effetti solo se redatto in forma scritta, ad substantiam, ai sensi degli artt. 2125 e 1350 n. 13 cc.
Codesta clausola pattizia soggiace alla pena di nullità, anche qualora non presenti il carattere dell’onerosità; al prestatore di lavoro, infatti dev’essere riconosciuta un’indennità a titolo di corrispettivo a riconoscimento della limitazione dell’esercizio della propria attività lavorativa.
La natura giuridica del patto in esame ci conduce alla disciplina del contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, salva ovviamente la sussistenza di tutti i limiti: oggetto, tempo e luogo che costituiscono conditio sine qua non per la sua validità.
A sostegno di questa tesi, riterrei opportuno riportare una massima del Tribunale di Torino del 2000 che così testualmente recita: “Il patto di non concorrenza è un contratto e, al pari di qualsiasi altro contratto, non può venir meno per volontà di una sola delle parti che l’hanno stipulato; la comunicazione, da parte del datore di lavoro, della liberazione del lavoratore dagli obblighi derivanti dal patto di non concorrenza è assolutamente inefficace”.
Il patto di non concorrenza riguarda esclusivamente il rapporto di lavoro subordinato e pertanto non può applicarsi ad ipotesi diverse, come quella, per esempio, del rapporto d’agenzia, dato che l’agente non è un lavoratore subordinato, ma un lavoratore autonomo; in tali ipotesi risulta essere applicabile, invece, l’art. 1751-bis del cc. (1); la Suprema Corte (2) considera altresì escluso dall’ambito di applicazione soggettivo dell’art. 2125 il lavoratore parasubordinato, essendo costui equiparato per analogia iuris al lavoratore autonomo.
Tale norma giuridica prevede al secondo comma che il patto di non concorrenza, dalla cessazione del rapporto di lavoro, non può avere una durata superiore a tre anni per i lavoratori dipendenti, a cinque per i dirigenti; nel caso in cui tali limiti temporali non fossero rispettati, per il tempo eccedente la durata legale, il patto non produrrebbe nessun effetto.
I lavoratori autonomi ai quali viene applicato l’art. 2596, non possono essere vincolati al divieto di concorrenza per più di cinque anni, mentre gli agenti, ai sensi dell’art. 1751-bis, per più di due anni.
A favore del lavoratore, il patto di cui all’art. 2125, in quanto contratto a titolo oneroso, come accennato sopra, deve obbligatoriamente prevedere un corrispettivo il cui ammontare potrà essere stabilito in misura fissa o in percentuale alla retribuzione sempre nel rispetto dell’entità dell’obbligo imposto.
Il corrispettivo dell’obbligo di non concorrenza, pattuito in favore del lavoratore in una percentuale sulla retribuzione e da corrispondersi nel corso del rapporto di lavoro (costituisce retribuzione, come ogni erogazione effettuata dal datore di lavoro “in dipendenza” e, più precisamente, in ogni occasione del rapporto di lavoro e, pertanto, è soggetto a contribuzione previdenziale ai sensi dell’art. 12 della legge 30 aprile 1969 n. 153 ed allo stesso termine di prescrizione previsto dall’art. 2948 n. cc. per tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi (3).
In relazione all’oggetto, l’imprenditore, nel definirlo, deve consentire al lavoratore nella sua successiva attività un guadagno idoneo ad appagare le esigenze del lavoratore e della sua famiglia (4); inoltre può estendersi anche all’attività coincidente con quella praticata dall’azienda che sia concorrenziale ad essa e non solo alle mansioni del lavoratore, purchè residui la possibilità di utilizzare le capacità professionali (5), non può contrariamente riguardare qualsiasi attività o oggetto molto ampio con corrispettivo simbolico (6); se il corrispettivo del patto oggetto dell’art. 2125 non è adeguato il patto è nullo.
L’onerosità non è necessariamente prevista per i patti ai sensi dell’2596 e 1751-bis, ed è invece esclusa qualora il patto che venga stipulato tra cedente e cessionario delle quote di partecipazione ad un’impresa collettiva, di cui il cedente sia anche direttore commerciale (7).
Nel caso in cui il lavoratore abbia goduto del corrispettivo erogato a fronte del patto di non concorrenza e in seguito si verifichi la nullità del patto stesso per mancanza di una delle condizioni su indicate, costui è tenuto alla restituzione delle somme elargite (8).
E’ altresì nullo il patto, il cui luogo comporta un’eccessiva estensione, assumendo tra l’altro che il limite territoriale dovrebbe essere verificato congiuntamente a quello di oggetto.
La giurisprudenza in passato si è pronunciata asserendo che è illegittimo il patto che estende il divieto di concorrenza a tutto il territorio nazionale, mentre al contrario è legittimo limitare l’attività in tutto il territorio CEE se in concreto il lavoratore conserva la possibilità di usare la propria professionalità (9).
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1( ) CASS, Sez. Lav. Civ., sent. n. 9118/1991, in UnicoLavoro, ed Sole 24 ore.
2( ) CASS., Sez. Civ., sent. n.. 11282/1990, in UnicoLavoro, ed Sole 24 ore.
3( ) CASS., Sez. Lav. Civ., sent. n. 3507/1991, in Giust.it.
4( ) CASS., Sez. Civ. Lav., sent. n. 5477/2000, in UnicoLavoro, ed Sole 24 ore.
5( ) CASS., Sez. Civ., sent. n. 10062/1994, UnicoLavoro, ed Sole 24 ore.
6( ) TRIB., Modena, 2000.
7( ) CASS. Sez. Civ., sent. n. 16026/2001, in Foro Italiano.
8( ) TRIB. Milano, 1992.
9( ) PRET. Milano, 1992.
n.b. mi meraviglio che nel tuo intervento non abbia specificato meglio questa clausola...
dimenticavo...felyna auguri