Dalla prima pagina de il Sole 24 Ore di ieri
Adriana Cerretelli
Si fa presto a dire Spagna (come ieri si diceva Grecia) per spiegare la nuova tempesta di Pasqua che sta scuotendo Borse e mercati. Si fa presto anche ad accusare l'inesauribile, ottusa perfidia della speculazione che «non riconosce il giusto valore agli enormi sforzi di riforma spagnoli» come ha tenuto a sottolineare ieri il portavoce del ministero tedesco delle Finanze.
Troppo facile. Troppo comodo scaricare a turno sulle spalle di un solo Paese responsabilità e colpe che invece sono di molti. Anzi, di tutti i 17 dell'euro perché, volenti o nolenti e finché dura, una moneta comune comporta per il bene comune un bagaglio di diritti e di doveri collettivi. Che invece continuano clamorosamente a latitare.
Prova ne sia che la crisi scoppiata nel 2010 intorno all'epicentro ellenico, invece di indurre il club a serrare i ranghi, non ha fatto che dividerlo, approfondendo il divario tra soci del centro e della periferia, tra Nord e Sud, tra ricchi e poveri, spaccando di fatto un'area monetaria che, per restare il credibile retroterra di una moneta unica, dovrebbe integrarsi di più e non continuare a sfilacciarsi senza posa.
È la non-Europa il vero bersaglio dei mercati. Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna, Italia e anche Francia sono di volta in volta obiettivi-test per verificarne la coesione che non c'è o, quando fa finta di materializzarsi, lo fa regolarmente sull'orlo del baratro, in ritardo e con il contagocce. In breve con azioni insufficienti per essere davvero convincenti. In questo modo, invece di disarmarli, si invitano a nozze gli speculatori di tutto il mondo.
Il gioco all'auto-massacro dura ormai da due anni e nulla per ora indica che terminerà a breve. Anche se la partita si fa sempre più pericolosa. Per tutti. Dando in pasto ai mercati rigore e riforme da cavallo nei Paesi più indebitati e vulnerabili, Angela Merkel era convinta di riuscire a prendere due piccioni con una fava: raddrizzando partner indisciplinati e potenzialmente troppo onerosi e restituendo così una vita tranquilla all'euro. Sbagliato. Perché per essere sostenibile la cura ha bisogno di crescita economica ma rigore e riforme la producono solo nel medio-lungo termine. A breve creano o aggravano recessione e tensioni sociali, come dimostra la cronaca quotidiana dell'eurozona.
I mercati l'hanno capito tanto bene che, nel giorno in cui il Governo di Mariano Rajoy ha annunciato nuovi tagli per 10 miliardi a istruzione e sanità (oltre ai 27 già varati) per ridurre il deficit spagnolo al 5,3% nel 2012, invece di premiarlo sono tornati a bastonarlo sugli spread.
Come stanno facendo con l'Italia di Mario Monti. Nella convinzione che austerità e riforme senza crescita finiscono per elidersi a vicenda. In una spirale perversa che non recupera stabilità ma, mandando lo sviluppo in picchiata, condanna il riequilibrio dei conti pubblici come la modernizzazione e la convergenza del sistema-euro alle fatiche di Sisifo.
Con la recessione in casa che si appesantisce, ormai il messaggio rigorista lascia dunque sui mercati il tempo che trova. In assenza di una autentica strategia e volontà politica europea, la Bce da sola più di tanto non può fare. La sua maxi-iniezione di liquidità alle banche ha guadagnato una tregua, non la pace. Non è servita a tonificare l'economia ma ha dato margini alle banche, tra l'altro italiane e spagnole, per acquistare titoli di Stato calmierando i tassi. A quelle stesse banche ora in sofferenza perché hanno in carico troppi bond sovrani, "intossicati" dalle prospettive di crescita negativa.
Comunque la si guardi, la svogliata politica di pseudo-salvataggio dell'euro sta arrivando a un punto morto. In un clima di distrazione quando non di fastidio diffuso.
La Francia di Nicolas Sarkozy, ligia al credo tedesco, è concentrata sulle imminenti presidenziali: vuole vincere contro il socialista François Hollande che rifiuta il rigore senza crescita. L'accoppiate Monti-Cameron che, all'ultimo vertice europeo sventolando la lettera dei 12, aveva fatto della crescita europea il suo cavallo di battaglia sembra essersi persa per strada in piena afasia. La Germania della Merkel spera cinicamente di riuscire a tirare a campare fino alle elezioni del settembre 2013 senza dover battere cassa al Bundestag per nuovi aiuti ai partner in difficoltà. Spera sempre di riuscirci costringendoli in una camicia di forza che li metta in grado di non nuocere e magari le permetta anche di sfruttare le loro vulnerabilità.
La sua però è una scommessa molto rischiosa. Perché i mercati, che ieri hanno lasciato parzialmente invenduta un'emissione di bund decennali a tassi storicamente bassi, stanno dimostrando di non avere più la sua stessa fiducia sui benefici dell'austerità a senso unico. E di considerare che i 17 dell'euro sono tutti sulla stessa barca. Peccato che il timoniere tedesco continui a non volerlo ammettere e, così facendo, rischi di condannare all'inutilità gli enormi sacrifici che impone ai membri più deboli dell'equipaggio.