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La riforma del diritto fallimentare [modifica]
La riforma del diritto fallimentare attuata con il decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, a sua volta modificata dal decreto correttivo 12 settembre 2007, n. 169, ha reintrodotto un sistema basato su criteri quantitativi e monetari, in ossequio alla direttiva del legislatore delegante di «semplificare la disciplina attraverso l'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilità dell'istituto» (art. 1, comma 6, lett. a, n. 1, legge delega 14 maggio 2005, n. 80).
La riforma del 2006 [modifica]
L'art. 1 l. fall., come modificato dal d.lgs. 5/06, esenta dal fallimento i piccoli imprenditori, sia individuali che collettivi, eliminando la disparità di trattamento tra le due categorie.
In modo apparentemente contorto il 2° comma della nuova norma disponeva che non sono piccoli imprenditori quelli che, anche alternativamente:
1.hanno effettuato investimenti nell'azienda per un capitale di valore superiore a euro trecentomila;
2.hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila.
L'ultimo comma, per evitare che tali parametri divengano col tempo inadeguati, stabilisce un aggiornamento ogni 3 anni con decreto del Ministro della giustizia sulla base della media delle valutazioni Istat dei prezzi al consumo per famiglie di operai e impiegati intervenute nel periodo di riferimento.
Il decreto correttivo del 2007 [modifica]
La riformulazione della norma aveva subito creato notevoli problemi pratici; in primo luogo si riproponeva il tradizionale quesito del rapporto con l'art. 2083 c.c., se di integrazione reciproca (tesi minoritaria) o di indipendenza (tesi maggioritaria); in secondo luogo non era chiaro a chi spettasse la prova dei parametri quantitativi, se al creditore istante o al debitore chiamato a difendersi, il che aveva drasticamente ridotto il numero delle imprese fallite ben oltre le intenzioni deflattive del legislatore delegante.
Questi problemi sono stati risolti dal decreto correttivo n. 169/07, che ha nuovamente modificato l'art. 1 l. fall.:
non si menziona più il piccolo imprenditore tra i soggetti esentati dal fallimento;
l'esenzione è conseguenza del mancato superamento, da parte di qualunque imprenditore commerciale individuale o collettivo, dei parametri dimensionali;
il debitore ha l'onere della prova di trovarsi al di sotto di tutti i parametri;
i parametri sono diventati tre e i due preesistenti sono stati sensibilmente ritoccati:
1.aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;
2.aver realizzato, nei tre esercizi precedenti, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila
3.avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.
Diversamente da quanto previsto dal d.lgs. 5/2006, occorre tuttavia il possesso congiunto dei sopracitati requisiti per non essere esposto alla disciplina del fallimento, mentre basta aver superato anche uno solo degli indicati limiti dimensionali per uscire dall'area di esenzione e diventare soggetto fallibile. Quanto al piccolo imprenditore, esso cessa di essere una nozione appartenente al diritto fallimentare per rimanere confinata nel codice civile come criterio di applicazione di una disciplina ormai fortemente ridotta (non obbligatorietà delle scritture contabili, iscrizione nel registro delle imprese con efficacia di mera pubblicità notizia, caducazione delle proposte ed accettazioni contrattuali, e poco altro).