CNN Archivio Pratiche C.N.N. L.A.22. BARALIS Giorgio, CACCAVALE Ciro
COMMISSIONE STUDI CIVILISTICI
Studio n. 4459
DIRITTI DI "USO ESCLUSIVO" NELL'AMBITO CONDOMINIALE
Approvato dalla Commissione Studi il 27 maggio 2003
E' d'obbligo un avvertimento: l'interprete si avvicina alla materia del condominio con una certa insofferenza; essa infatti è trattata in genere dalla dottrina e dalla giurisprudenza senza grande rigore dogmatico e sistematico; a parte il fatto che in molti settori è difficile riconoscere un filone dottrinario e giurisprudenziale costante, l'impressione generale che si ricava dall'esame della materia è che molte volte le soluzioni obbediscono più ad un criterio empirico collegato alla specificità del caso, e forse all'equità, che a un quadro coerente nel suo insieme. Molte volte, e lo si sottolineerà nel corso del presente lavoro, anche su questioni non di scarsa importanza, ci si imbatte in soluzioni giurisprudenziali che lasciano perplessi o insoddisfatti perché collidono con altri principi interni all'istituto.
Per dare conto di quanto sopra, citando i casi più eclatanti e conosciuti, basta ricordare l'uso indiscriminato che spesso la giurisprudenza fa della figura dell'onere reale (esemplarmente "ex multis" Cass. 14.4.1983, n. 2610; v. dal punto di vista informativo, NICOLETTI-REDIVO, Il regolamento e l'assemblea nel condominio degli edifici, Padova, 1990, p. 56 e ss.) per indicare certe limitazioni della proprietà esclusiva, avvalendosi di una categoria dogmatica che, rigorosamente parlando, riguarda in realtà pochissimi casi e non rientranti in realtà nella materia condominiale; basta ricordare il valore che la giurisprudenza assegna alla trascrizione del regolamento di condominio ai fini della opponibilità di determinate limitazioni qualificate in termini di "obbligationes propter rem", mentre in realtà come è stato esattamente notato (GAZZONI, La trascrizione immobiliare, in Commentario al codice civile diretto da Schlesinger, Milano, 1991, p, 638), se tali sono in quanto rientranti nella funzione del regolamento condominiale, sono di per sé opponibili.
Per dare conto, in maniera ancora più significativa, delle difficoltà che si incontrano nel tentativo di tracciare un quadro coerente, dal punto di vista giurisprudenziale, della materia si indica come esemplare la recentissima sentenza della Suprema Corte 1.3.2000, n. 2255, nella cui motivazione si leggono affermazioni dal punto di vista dogmatico perlomeno "imbarazzanti".
Nella sentenza si fa una distinzione fra utilità oggettiva afferente alle parti comuni (quella prestata ad esempio dalle fondazioni) ed utilità soggettiva (quella inerente ai bisogni di o dei condomini, ad esempio l'apposizione di targhe ai muri maestri o l'uso dei cortili come parcheggi); la distinzione è vera ma dal punto di vista strettamente giuridico non pare rilevante. Si afferma la possibilità, in sede di alienazione del bene principale e della quota correlativa del bene accessorio (cortile), di scindere la cessione della quota del bene accessorio dall'uso soggettivo dello stesso (facoltà di parcheggiare), uso soggettivo che permarrebbe in capo al cedente, proprietario di altro appartamento nel condominio, e l'accordo, atipico, fra cedente e cessionario viene giustificato ex art. 1322 c.c. in ragione della scarsa ampiezza del cortile che non consente il parcheggio per tutti i condomini; l'affermazione, benché sforzata, è accettabile.
La Suprema Corte, quindi, in un punto successivo della motivazione e in maniera tortuosa e involuta, esclude che un comunista possa cedere ad un terzo estraneo al condominio, con la sola cessione della quota del bene accessorio (cessione che pur si ammette), l'uso soggettivo e particolare correlato (il diritto di parcheggio); ciò sarebbe possibile solo ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 1108 c.c., terzo comma con il consenso di tutti i condomini. E qui non si capisce purché, se si ammette la cessione isolata della quota del bene accessorio, non si trasmetta anche l'utilità cosiddetta soggettiva inerente. La Suprema Corte motiva adducendo che l'uso soggettivo (si badi) è strumentale alla proprietà del bene principale, ma non si capisce comunque come questo ostacolo non operi quando il consenso sia prestato da tutti i condomini.
In realtà le affermazioni sono apodittiche e rivelano invece il loro carattere empirico e la volontà, per comprensibili ragioni di buona politica urbanistica - ma che già il legislatore speciale si è fatto carico di realizzare -, tesa ad ancorare la facoltà di parcheggio a servizio dei condomini e non dei terzi. Buone le intenzioni, quindi, ma completamente sganciate dal diritto positivo.
Ciò premesso credo che si possa prospettare la seguente tipologia.
1) Attribuzioni dell'"uso esclusivo", nell'ambito del condominio, a tutti o alcuni dei condomini. Una alternativa possibile: la servitù.
a1) Con il termine si intende indicare un godimento, nell'ambito di bene comune, di una frazione spazialmente determinata dello stesso “quasi” “uti dominus” (vale sempre infatti il limite di cui all'art. 1102 c.c. qualora, ad esempio, il condomino facesse opere sulla sua porzione in contrasto con il diritto degli altri; difetta, a difesa del suo diritto specifico, la tutela processuale del proprietario). L'ipotesi è che porzioni di un bene comune siano attribuite appunto in "uso esclusivo" (ad esempio: posti macchina, spazi adibiti a giardino, piccoli cortili) ai vari comunisti, in deroga al principio generale che il godimento del bene comune spetta in solido, promiscuamente agli stessi.
Tale diritto nulla ha a che fare con il diritto d'uso di cui all'art. 1021 c.c. Il punto sembra così evidente da non meritare alcun approfondimento. Non smentisce quanto scritto la circostanza che la giurisprudenza, nell'ambito dei posti macchina di cui alla cosiddetta legge-ponte, faccia riferimento al diritto d'uso di cui all'articolo citato. Si tratta di un nuovo diritto reale di creazione pretoria, con vere caratteristiche di ircocervo, che merita una trattazione a parte come "ius singulare". Basti pensare che tale diritto è riconosciuto come collegato ad un vincolo pubblico di destinazione, e come tale è inderogabile dall'autonomia privata e dovrebbe essere insensibile ad ogni vicenda estintiva di diritto comune, mentre poi, qualificandolo in termini di diritto reale, lo si ritiene suscettivo di prescrizione estintiva per non uso (Cass. 14.11.2000, n. 14731), ma nel contempo, in deroga alla struttura del diritto reale tipico, destinato alla fruizione non solo da parte dei soggetti di cui agli artt. 1021, 1023 c.c., ma anche da parte di "persone che abitualmente accedono" al bene principale (Cass. 5.4.2000, n. 4197).
Ancora, poi, bisognerà volta per volta distinguere l'uso esclusivo come sopra individuato dall'attribuzione della piena proprietà di una porzione immobiliare (spesso un giardino o una striscia di suolo comunque) qualificata in maniera indiretta (ad esempio uso esclusivo, perpetuo, trasmissibile a chiunque); il metodo è a volte usato dai pratici come "escamotage" per risolvere, tramite la qualificazione surrettizia, problemi catastali.
Preliminarmente bisogna approfondire se la comproprietà sia compatibile con un godimento distinto, essendo invece "naturaliter" insita nell'istituto l'idea dell'uso promiscuo. Non è pacifico che il diritto di comproprietà possa modificarsi nel senso sopra detto, rispettando la struttura "tipica" del diritto reale di comunione, e comunque si discute anche sui presupposti e sul titolo che danno origine all'"uso esclusivo".
Per alcuni la ripartizione spaziale, violando il principio generale del godimento promiscuo, richiede l'unanimità dei consensi dei comunisti (già così prima della codificazione del 1942, VITALEVI, Della comunione dei beni, Torino, 1884, p. 209); tale ripartizione importa una “alterazione dell'elemento reale della comunione” e per essere opponibile ai terzi o dovrà essere contenuta nel regolamento o risultare da atto scritto soggetto a trascrizione (FEDELE, La comunione, in Tratt. di dir. civ. diretto da Santoro Passarelli, Milano, 1967, p. 174-75 e 178-179 e 339).
Per altri, se l'uso promiscuo è irrazionale o impossibile, e solo in questo caso, il godimento spaziale ripartito potrà essere il contenuto di una delibera a maggioranza o di un regolamento, valevole per gli attuali comunisti e loro aventi causa (LENER, La comunione, in Tratt. di dir. priv. diretto da Rescigno, Torino, 8, II, 1982, p. 305-306 e 318-319; Cass. 22.3.2001, n. 4131; Idem, 19.10.1994, n. 8528) senza che vi sia alcuna alterazione del diritto di comproprietà.
Per altri infine, ed è l'opinione più ricorrente e persuasiva, la ripartizione spaziale suppone solo una convenienza o ragionevolezza (concetto più blando della razionalità) dell'operazione: ciò non contrasta con il principio di cui all'art. 1102 c.c. e 1105 c.c. perché il cardine di tali norme è sempre il miglior godimento della cosa comune, il che è proprio nel caso concreto. La ripartizione potrà attuarsi in sede di regolamento o con delibera a maggioranza (BRANCA, Della proprietà, Comm. del c.c. Scialoja e Branca, Bologna - Roma, 1960, p. 67-69; Idem, Modo di godimento e amministrazione della cosa comune, in Riv. dir. civ., 1968, I, p. 408-409), l'intreccio delle varie limitazioni al diritto di comproprietà sarà costituito da altrettante "obbligationes propter rem" (BRANCA, Della proprietà cit., p. 69).
Per altri infine, addirittura, la scelta fra uso promiscuo o ripartito è demandata alla libera scelta della maggioranza (DOGLIOTTI - FIGONE, Condominio negli edifici, Dig. disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, II, Torino, 2003, p. 353; Cass. 22.11.1984, n. 6010; Cass. 22.3.2001, n. 4131).
Il punto debole (nel senso di svantaggio per il singolo comunista) della ripartizione del godimento di cui sopra, salvo che si accetti la tesi minoritaria sopra espressa per prima, è dato in particolare dalla modificabilità, a maggioranza, della delibera dei comunisti o, secondo la tesi più persuasiva, della modificabilità a maggioranza del regolamento, pur se assunto all'unanimità, in quanto si tratta pur sempre di materia di tipica competenza assembleare perché riguardante il godimento di un bene comune (Cass., SS.UU., 30.12.1999, n. 943/SU).
Ci riferiamo al caso di delibera che decide il passaggio dall'uso ripartito all'uso promiscuo (ovviamente nell'ipotesi in cui tale ultimo uso non sia impossibile), ma l'ipotesi ancora più grave è quella della delibera che addirittura disponga il cambio di destinazione dell'area a parcheggio (ad esempio da parcheggio a giardino); in che limiti ciò possa avvenire è incerto e dibattuto e così si passa dalla tesi più liberale per cui la maggioranza dispone sempre sulla destinazione vertendosi comunque in tema di miglior uso di beni comuni(Cass. 17.10.1998, n. 10289), alla tesi un po' meno liberale per cui tale cambio suppone un regolamento non contrattuale (Cass. 6.2.1999, n. 1057), giacché in caso contrario vale l'unanimità (Cass. 14.6.1997, n. 5369), alla tesi per cui occorre la maggioranza rinforzata prevista per le innovazioni sia o non sia la destinazione prevista in regolamento (Cass. 17.6.1997, n. 5400; BOGGIANO, Brevi note sull'uso del bene comune, in Giur. it., 2002, I, p. 275).
Altro punto debole è dato dalla grande insicurezza che regna circa la possibilità e la necessità della trascrizione in ordine a tali "obligationes propter rem" (v. per tutti GAZZONI, La trascrizione cit., p. 633-636).
Il punto forte potrebbe essere la negoziabilità separata (dal bene principale) delle ragioni di comproprietà dello spazio comune cui afferisce il godimento ripartito fra i vari comunisti. Per la verità questa soluzione non può dirsi sicura perché esiste giurisprudenza che nega la possibilità di scollegare in sede di alienazione le parti comuni (si badi quelle non necessariamente comuni) dal bene principale, salva diversa disposizione del titolo, (Cass. 10.1.1990, n. 9, nonché la già citata Cass. 1.3.2000, n. 2255, che però, fa salva l'ipotesi del consenso di tutti i comunisti ed esclude, comunque, la sola alienazione separata del godimento); si adduce il motivo che le parti comuni sono funzionalmente destinate al servizio della proprietà esclusiva di ciascun condomino.
Altra giurisprudenza, invece, è nel senso che l'alienazione separata è impossibile se così è previsto convenzionalmente dai condomini (Cass. 29.5.1995, n. 6036). Le soluzioni lasciano perplessi perché se una parte non è necessariamente comune il suo vincolo a servizio della costruzione non può essere per definizione così intenso da impedirne l'alienazione separata, neppure se l'autonomia privata si pronuncia nel senso di ritenere (soggettivamente) strettissima la destinazione (contra DE RENZIS, in AA.VV., Trattato del condominio, Padova, 2001, p. 163-164); quanto alla convenzione si sa bene che, secondo il sistema, i divieti di alienazione hanno una efficacia obbligatoria e limitata nel tempo e d'altra parte non sembra che tale divieto possa essere informato al miglior godimento della cosa comune tipico del regolamento di comunione e condominio.
La "stabilità", l'esito definitivo dell'intento pratico di cui sopra può ottenersi creando, in alternativa, una serie di servitù reciproche aventi per oggetto l'asservimento, ai fini di una migliore utilità, di un bene secondario (giardino, spazio macchina) comune rispetto ad un bene principale (appartamento, villa) di proprietà separata (Cass. 15.4.1999, n. 3749; Cass. 13.11.1993, n. 11207). Quest'ultima soluzione - la servitù - diventa d'obbligo (v. bene Cass. 15.4.1999, n. 3749, in motivazione) laddove l'utilità esclusiva non sia in funzione di un riparto che riguardi tutti i comunisti ma solo alcuni o solo uno; sarebbe infatti irragionevole, addirittura contraddittorio un riparto di godimento in cui qualche comunista è totalmente sacrificato a vantaggio degli altri anche per motivi collegati alla struttura del diritto reale come si dirà infra. E' anche ovvio che l'asservimento collegato alla servitù ha dei limiti di godimento più ridotti rispetto al cosiddetto diritto di uso esclusivo.
a2) Il punto finale di cui sopra deve essere sottolineato perché non è infrequente rintracciare massime giurisprudenziali che collegano il "diritto di uso esclusivo" nell'ambito condominiale "solo" a uno o alcuni condomini (Cass. 4.6.1992, n. 6892; Idem, 27.7.1984, n. 4451; Idem 20.2.1984, n. 1209; Idem 1.3.2000, n. 2255). Francamente l'appiglio immediato per coonestare tale soluzione è quello di cui all'art. 1126 c.c., ma si tratta di norma che, proprio in forza della tipicità dei diritti reali (nel senso della realità pur senza approfondimenti, Cass. 22.11.1996, n. 10323 in motivazione; perplesso, invece, sulla natura del diritto GIRINO, Teoria generale del condominio, Torino, 1988, p. 76), non si presta ad alcuna, diversa dilatazione, salvo una modestissima applicazione estensiva (così per le terrazze che fungono da copertura di un edificio).
Se si esclude l'applicazione analogica dell'art. 1126 c.c., appare dubbia la validità di un accordo interno fa i comunisti che, in deroga all'art. 1102 c.c., assegni l'uso esclusivo, anche se di una parte del bene comune, solo a uno o più comunisti. L'art. 1102 indica un aspetto "strutturale" della comunione; esso non è "sostanzialmente" modificabile (nel senso di escludere ogni utilizzazione da parte di qualche comunista; compressioni sono invece possibili come si dirà infra, v. Cass. 20.7.1971, n. 2369) in forza del principio di tipicità dei diritti reali, principio che comprende anche l'immodificabilità dei loro aspetti strutturali (PUGLIESE, Usufrutto, uso, abitazione, in Tratt. di dir. civ. diretto da Vassalli, Torino, 1972, p. 149; GAZZONI, La trascrizione immobiliare cit., p. 634; Cass. 7.9.1978, n. 4045; contra VITUCCI, Utilità e interesse nelle servitù prediali, Milano, 1974, p. 39). Sarà certo possibile concedere poteri a un solo condomino in forza di uno specifico diritto reale di godimento o di obbligazione (v. SCOZZAFAVA, Comunione, in Enc. Treccani, Roma, 1988, p. 7), ma questo è tutt'altra cosa rispetto ad una modifica del regime della comunione o del condominio derogatorio del principio di cui all'art. 1102 c.c.
La conclusione sopra assunta suppone che il godimento sia un aspetto strutturale della comunione. Ora non è il caso di scendere ad approfondite disamine sulla natura dell'istituto; resta il fatto che, salvo qualche isolata opinione contraria (FRAGALI, La comunione, in Tratt. di dir. civ. e comm. diretto da Cicu e Messineo, I, Milano, 1973, p. 278 e 394-397) secondo la quale l'"uti et frui" non è elemento essenziale della comunione - ma mero limite al quale devono attenersi i comunisti nell'esercitare i loro poteri "perché il rapporto non trasmodi in società" - , la dottrina di maggioranza è concorde, al contrario, nel ritenere che il godimento sia intrinseco al concetto di comunione (v. per tutti FEDELE, La comunione cit., p. 79; BIANCA, Diritto civile, la proprietà, Milano, 1999, p. 458). Del resto sarebbe ben strano che il godimento sia una aspetto intrinseco della proprietà (salvo staccarsene in conseguenza della costituzione di un diritto reale minore) e non lo sia invece della comproprietà.
Del resto per ragioni eguali e contrarie se certi condomini per regolamento di condominio sono esonerati dal pagamento delle spese di conservazione in ordine ad una certa parte comune, giustamente per essi se ne esclude la presunzione di condominialità (Cass. 26.1.1998, n. 714). Infine e per ultimo ricordiamo che usi "solitari" sono previsti anche in ambito sociale dall'art. 2256 c.c.; la norma riecheggia, ma in un senso molto più limitato, la disposizione dell'art. 1723 c.c. abrogato in tema di società civili; orbene quest'ultima disposizione prevedeva non un diritto di uso stabile, ma un diritto saltuario che non doveva comunque impedire agli altri soci di servirsi della cosa (v. per tutti BORSARI, Commentario del codice civile, 4, 2, Torino, 1878, sub. art. 1723, p. 977-978), ma soprattutto il rilievo dell'art. 2256 c.c. consiste nel derogare al principio di cui all'art. 1102. c.c. nel senso di permettere solo eccezionalmente usi extrasociali del bene, mentre l'art. 1102 c.c. permette, nel rispetto del diritto degli altri, ogni uso (FERRI, Le società, in Tratt. di dir. civ. diretto da Vassalli, Torino, 1971, p. 46).
L'uso esclusivo attribuito solo ad uno o alcuni condomini appare, a questo punto, una creazione giurisprudenziale (pur se relativamente tralaticia), ma diffusa anche nella prassi (v. 24/ore Inserto di consulenza, 2002, n. 55 p. 1285) di dubbia validità, anche se è bene che l'operatore del diritto ne tenga conto. Volendo comunque, con molti sforzi, trovare una giustificazione che in qualche maniera coonesti la soluzione giurisprudenziale, accolta, come scritto, anche dai pratici, forse l'unica via è quella di riferire tutte le considerazioni sopra fatte al complesso condominiale in sé o al bene comune nella sua complessità e non alle sue singole parti. In altre parole la regola per cui il godimento, salvo compressioni, non può che spettare a tutti i comunisti vale per il complesso in sé; invece per alcune parti dell'entità globale comune, specie se di natura accessoria, l'uso esclusivo attribuito a un singolo comunista non viola le regole circa il godimento comune. Grosso modo: come sono lecite le compressioni del godimento di "un" bene comune a danno di alcuni e a favore di un singolo, così per le stesse ragioni, nell'ambito di una entità complessa comune (come il condominio), alcune parti accessorie possono spettare come godimento esclusivo a un solo comunista e, in questo senso, la compressione è riferibile al complesso nel suo insieme. Analoghe conclusioni, ovviamente, allorché si abbia un uso ripartito fra vari comunisti in ordine ad uno spazio facente parte di un complesso residenziale munito di vari spazi e servizi comuni.
Se così fosse, e ci sembra l'unica spiegazione ragionevole, valgono tutte le considerazioni sopra fatte al punto a1), ivi compresi i dubbi circa l'alienabilità separata della porzione accessoria, qualificata anche dall'uso esclusivo a favore dell'acquirente.
2) Attribuzione di un diritto di uso esclusivo con contenuto più limitato.
Qualche rara volta appare in giurisprudenza la figura di un diritto di uso con contenuto più limitato: non si tratta di poteri dominicali estesi quanto la proprietà, ma di limitati poteri accessori e funzionali ad un bene principale.
Così ad esempio al proprietario di un bene destinato ad esercizio commerciale posto al piano terra si è concessa la facoltà di "uso esclusivo per l'accesso, il calpestio e l'esposizione delle merci" (App. Palermo, 15.2.1977, in Giur. merito, 1981, p. 395; una ipotesi simile in App. Milano, 18.1.1983, in Foro pad. 1983, I, p. 187); notiamo che tale previsione pattizia non ha nulla a che vedere con la circostanza che "di fatto" qualche condomino usi più intensamente, ma lecitamente (Cass. 1.8.2001, n. 10453), degli altri il ben comune: altro infatti è la circostanza fattuale, che può sempre ribaltarsi, altro è il diritto. Il carattere pretorio ed empirico di tale diritto è evidente. Il punto di vista giurisprudenziale è accettabile: è possibile rimanere in un quadro di aderenza ai principi condominiali ritenendo che tale facoltà (uso più intenso di un bene comune da parte di un comunista) ha il significato non di una deroga - inaccettabile - al principio di cui all'art. 1102 c.c., ma di una attenuazione - legittima - di tale principio (in questo senso Cass. SS.UU. 30.12.1999, n. 943/SU).
3) Posti auto ex lege ponte (L. 765/1967) e ripartizione spaziale con diritto d'uso esclusivo.
L'area destinata ai parcheggi di cui alla legge ponte può essere materialmente ripartita collegando determinati posti auto, come pertinenze necessarie, ai vari appartamenti oppure risultare indivisa a servizio degli stessi (v. bene CASU, I parcheggi nella contrattazione privata, Notariato, 1998, p. 465; ANNUNZIATA, Ancora sul diritto al parcheggio nelle aree condominiali, in Giur. it., 2001, p. 686).
Va da sé che sarà perfettamente possibile, mantenendo la comunione dell'area, ripartire il godimento della stessa assegnando "usi esclusivi" su singole porzioni, purchè tali ripartizioni realizzino l'attribuzione pertinenziale di singole porzioni a tutte le unità del condominio (CASU, op. cit., loc. cit.). Proprio per tale ragioni (pertinenzialità "integrale" dell'area adibita a parcheggio) riteniamo che in caso di frazionamento successivo di una unità abitativa in due unità il diritto di uso esclusivo (o il diritto di proprietà o di "uso", giusta il concetto pretorio usato dalla giurisprudenza) non possa che spettare in comune alle due unità (contra CASU, op. cit., p. 470), naturalmente se il posto macchina perde la sua funzione in caso di ripartizione materiale.
Anche per questi parcheggi la ripartizione spaziale con uso esclusivo può avvenire, a nostro parere, secondo i criteri e in armonia con i punti di vista sopra esposti al punto 1). In dottrina è stata affacciata la tesi per la quale la delibera condominiale o il regolamento pattizio dovranno parametrare il diritto di ciascun condomino non ai criteri millesimali, ma a quelli di cui all'art. 18 della legge 765 (volumetria/area) (v. MARINO, in AA.VV. Il condominio degli edifici a cura di Napoli, Padova, 2000, p. 269). E' assai discutibile: i posti auto dovrebbero ragionevolmente essere tutti di misura standard (il senso della legge non è quello di "raddoppiare"eventualmente lo spazio in ragione del rapporto volume/area dell'appartamento) e collateralmente la migliore e diversa posizione di alcuni posti rispetto agli altri dovrebbe dar luogo a criteri selettivi di attribuzione in ragione della tabella millesimale, quale espressione del maggior valore di alcune unità rispetto ad altre.
4) Il diritto di superficie: una alternativa all'uso esclusivo come ripartizione spaziale del godimento?
L'ipotesi può apparire assai poco plausibile. Di più se la si rapporta a concreti casi giurisprudenziali e a una ricorrente ricostruzione della natura del condominio di marca giurisprudenziale.
Lo spunto può essere offerto da Cass. 5.4.1984, n. 2206 (cit. in MARINO, op. cit., p. 130). Secondo la Suprema Corte "Il proprietario del piano di terra ha sul suolo di proprietà comune un diritto di superficie analogo a quello che si riconosce ad ogni proprietario del piano superiore rispetto al piano inferiore". Come è noto la ricostruzione del condominio in termini di reciproci diritti di superficie è di vecchia data ed è costruzione che presta il fianco a fondatissime critiche (COMPORTI, Il condominio precostituito e i negozi di precostituzione condominiale, in AA.VV., La casa di abitazione fra normativa vigente e prospettive, II, Milano, 1986, p. 434 e ss.). Qui se ne parla per ragioni di completezza nella trattazione dell'argomento.
Non è del tutto peregrina l'ipotesi che in sede di prima alienazione si riconosca convenzionalmente al/ai proprietari dei piani a terra un diritto di superficie non solo sull'area materialmente occupata dalla costruzione, ma anche sull'area accessoria. Il diritto di uso esclusivo, in questo caso, si tradurrebbe in uno specifico diritto di superficie con caratteristiche di autonomia (e quindi di sicura autonoma alienabilità) ben diverse dall'uso esclusivo di cui al punto 1). La realizzazione pratica in sede notarile di una tale ipotesi, però, si presenta quanto meno spregiudicata ed è certo non consigliabile proprio in ragione di una scarsamente persuasiva ricostruzione dogmatica del condominio.
5) Problemi di trascrizione.
Per completezza si sottolinea che è bene che il diritto di uso esclusivo di cui al punto 1) risulti in sede di trascrizione ex art. 2643 come modificazione di un diritto reale.
Si è primo scritto che la tesi suppone che la convenzione realizzi una "alterazione dell'elemento reale della comunione" (è la citata opinione di FEDELE) che dogmaticamente non persuade trattandosi di mera modalità del godimento; di fronte, però, all'imponente giurisprudenza che ne richiede la pubblicità, il consiglio di trascrivere è d'obbligo.
Nell'ambito della pubblicità meccanizzata, stante il rigido sistema di codificazione dei diritti trasferiti, riteniamo che il diritto debba essere indicato nel quadro "D", vigendo il principio della valutazione della nota nel suo complesso (v. da ultimo MISEROCCHI, "Nuova" meccanizzazione dei registri immobiliari e "invalidità" della trascrizione per vizi della nota, in Riv. dir. priv., 1997, p. 296 e ss.; per una valutazione, nell'ambito della pubblicità, della funzione del quadro "D", v. recentissimamente GAZZONI, Il cammello, il leone, il fanciullo e la trascrizione del trust, in Riv. not., 2002, p. 114-1115).
Giusta quanto scritto prima il diritto di uso esclusivo che "maschera" un vero diritto di proprietà dovrà essere codificato in quest'ultimo senso se si vuole realizzare la sicura opponibilità del diritto come tale; il fatto che il diritto sia meglio qualificato nel titolo non serve in ragione del noto principio che la pubblicità immobiliare è fondata sulla nota e non sul titolo (v. per tutti MISEROCCHI, "Nuova meccanizzazione" cit., p. 298); una indicazione nel quadro "D" metterebbe sicuramente in discussione la qualificazione del diritto come proprietà.