Purtroppo anch'io, come l'utente Lucmar, pochi giorni fa ho ricevuto analoga richiesta dall'Agenzia delle Entrate. Anche nel mio caso il notaio,ha inserito la solita frase standard, dell'impegno a spostare la residenza nel Comune dove è stata acquistata la "prima casa" entro 18 mesi ed ha omesso di indicare la mia professione.Nel mio caso io ho fatto spostare la residenza alla mia compagna mentre non ho spostato la mia, in quanto sicuro di potermi avvalere della normativa che consente agli appartenenti alle forze armate/forze di polizia di non spostare la residenza. Adesso l'Agenzia delle Entrate mi chiede di pagare il 50 % più sanzioni della mia quota di oneri relati all'acquisto della prima casa. Ho letto che il collega è riuscito, con una semplice memoria in autotutela a far annullare l'atto dell' agenzia delle entrate.
Ciao Max!
Poiché nel rogito ti sei impegnato - pur non essendo obbligato (art. 66, co. 1 della legge n°342/2000) – a trasferire la residenza nei 18 mesi dall’acquisto, è opportuno verificare presso l’ufficio competente se, per godere dell’esenzione (tua moglie ha posto la residenza nei termini fissati dalla legge) sia o meno necessario un atto integrativo o (più probabile) se sia sufficiente – a carte scoperte - una semplice dichiarazione in autotela da rendere in Agenzia nel quale inserire le motivazioni che portano a non aderire ai rilievi contestati.
Ciò che ti è capitato è dovuto al controllo automatizzato e formale degli atti incrociati (è probabile che l’ufficio non ne sia neppure a conoscenza). Che cosa succede? Succede che sistema informatizzato lavora per imput. Imput = Prima casa. Imput = Residenza. Imput = Ritardo. Imput = Sanzione. Se vede che tu hai acquistato prima casa a Ospedaletti e risiedi a Roma, fa partire in automatico un avviso di accertamento.
I margini per annullare l’atto nel caso prospettato sono molto ampi, ma, a giudizio di scrive, i margini per uscirne sussistono anche nel caso di LUCMAR. In termini generali, una posizione prudenziale consiglierebbe sempre di far trasferire la residenza del coniuge, se non altro per evitare noie e contenziosi. Secondo i giudici della Suprema Corte (Cass. n°14237/2000; n°13085/2003; n°15426/2009), però, ciò non è necessario poiché – e qui mi ricollego anche al caso di LUCMAR - in relazione all’appartamento che il coniuge acquirente ha acquistato in regime di comunione legale, gode dei benefici fiscali prima casa anche l’altro coniuge, per quanto privo del requisito di residenza: il beneficio è esteso
ope legis con la comunione legale (e, pertanto, l’agevolazione prima casa spetta sull’intero valore).
Colui che diviene proprietario della metà del cespite acquisito dal coniuge – che viene poi fatto rientrare nel regime della comunione legale – non si rende “acquirente” del bene, ma lo riceve per volontà di legge (Cass. n°14237/2000). Di conseguenza, al coniuge non acquirente non è richiesta la titolarità del requisito! Tanto più in considerazione del fatto che – come rilevato dalla sentenza della CT sopra riportata – i coniugi non sono tenuti ad una comune residenza anagrafica, ma solo alla reciproca coabitazione (art. 143 cod. civ.). Da tale costrutto ne deriva che la coabitazione con il coniuge acquirente è un elemento adeguato a soddisfare il requisito della residenza ai fini civilistici.
L’Agenzia delle Entrate è, invece, di tutt’altro avviso. Come ragione l’Agenzia delle Entrate? Ragiona in questi termini. Poiché la moglie successivamente non può più riacquistare, avendo già goduto il bonus, doveva necessariamente aver preso la residenza per avere la detrazione. Con la circolare n°38/2005 (par. 2.1), facendo leva su precedenti sentenze della stessa Cassazione (n°8502/1996; n°3159/1996) che argomentavano che “
in carenza di disposizioni che espressamente stabiliscono l’unicità del trattamento tributario […] si deve far riferimento all’indicata natura della comproprietà indivisa e quindi si deve accertare per ogni acquirente, ed in relazione alla sua quota, la presenza o meno dei presupposti dell’agevolazione”, l’Agenzia delle Entrate sostiene che se si accogliesse l’opposta soluzione, sarebbe attratto nell’orbita tributaria della legge di favore un soggetto per cui non ricorrono i presupposti necessari.
In definitiva, secondo detto assunto, l’acquisto di un appartamento da adibire ad abitazione principale da parte di un coniuge che si trovi in regime di comunione legale, comporta che l’applicazione nella misura del 50% dell’agevolazione prima casa, qualora l’altro coniuge non sia in possesso dei requisiti necessari per fruire del bonus. Con una deroga, però. Quale? Se uno dei coniugi ha già fruito dell’agevolazione in relazione ad un immobile acquistato prima del matrimonio ovvero in regime di separazione dei beni, in quanto tali situazioni permettono di escludere la comproprietà.
Al riguardo, l’Agenzia sottolinea che:
a) ai fini civilistici non sussiste la necessità che entrambi i coniugi intervengano nell’atto di trasferimento della casa di abitazione per acquisirne la comproprietà, in quanto il coacquisto si realizza automaticamente
ex lege.
b) ai fini fiscali, invece, per ottenere l’agevolazione prima casa sull’intero immobile, viene espressamente richiesto che entrambi i coniugi devono rendere le dichiarazioni previste alla lettera b) (assenza dii altri diritti reali su immobili ubicati nello stesso Comune) e c) (godimento dell’agevolazione) della Nota II-
bis del TUR.
In merito alla lettera a) della Nota (l’immobile ubicato nel territorio del Comune in cui l’acquirente ha o stabilisca la propria residenza) - che è quello che più interssa a noi - nella circolare richiamata, viene chiarito che l’agevolazione compete negli stessi limiti del 50% anche se uno solo dei coniugi abbia reso la dichiarazione, citandosi a conforto (in realtà: a torto!) l’ordinanza di Cassazione n°13085/2003, quando, in realtà, la Suprema Corte, in tale sentenza, aveva detto ben altro, motivando che qualora l’immobile sia acquistato da un coniuge in comunione di beni, ai fini del’applicazione delle norme sull’acquisto della prima casa, non rileva il dato anagrafico, quanto la effettiva utilizzazione del bene per soddisfare primarie esigenze abitative. Inoltre ciò che conta, non è tanto la residenza dei singoli coniugi, quanto quella della famiglia, quale soggetto autonomo rispetto ai coniugi (art. 144 cod. civ.).
Pertanto – secondo Cassazione - anche la norma tributaria va letta ed applicata nel senso che diventa prevalente l’interesse della famiglia rispetto a quello dei singoli coniugi, per cui il metro di valutazione dei requisiti per ottenere i benefici deve essere diverso in considerazione della presenza di un’altra entità, quale, appunto, la famiglia (soggetto tutelato in senso più ampio).
In conclusione, attesa la persistente posizione contraria dell’Amministrazione finanziaria, non rimane che prendere atto che residuano ancora margini sufficienti per ritenere la questione tuttora non pacificamente risolta.