ECONOMIA Previsti profitti in riduzione del 70%. E già oggi è allarme patrimonio
Il paradosso di Unicredit che paga l'intraprendenza internazionale pre-crisi
Banche italiane fuori dalla bufera
ma il 2009 potrebbe travolgerle
di ANDREA GRECO
MILANO - Ma le banche italiane stanno tanto male da vedere la rinazionalizzazione in fondo al tunnel della crisi? Domanda pertinente, dopo che un presidente del Consiglio - anche se è Silvio Berlusconi, e non sempre esterna con le pinze - lo ha ipotizzato. Anche se parlava in ambiti europei il Cavaliere, sempre più il simbolo del paese, ha fatto pensare i più alle banche italiane. Anche gli operatori di Piazza Affari, quei superstiti che dopo la sortita hanno ripreso instancabili a vendere titoli di Unicredit e d'altro. Perché la nazionalizzazione non piace agli investitori: fiacca le prospettive di rischio e utile, a vantaggio degli obbligazionisti che hanno prestato denari e ne escono garantiti.
La platea dei banchieri si guarda bene dal chiosare, e dietro le quinte si divide tra chi minimizza e intravede la solita voglia del Cavaliere di essere al centro del dibattito su un tema già sdoganato in Gran Bretagna, Usa e accarezzato in Germania, e chi la ritiene un'esagerazione, perché le banche italiane stanno meglio delle rivali, quindi non è il caso di nazionalizzare, porta rogna solo dirlo.
Fatta la premessa, e a pochi giorni dalla pubblicazione dei bilanci 2008, qualcosa sulla salute e la tenuta delle banche domestiche si è capito. Per una minore aggressività nella finanza spinta, quasi tutti gli istituti del paese hanno scansato la prima fase della crisi, quando il problema era l'esposizione ai mutui feccia tipo subprime. Lì il sistema se l'è cavata con perdite di qualche milione, contro qualche miliardo in Europa, decine negli States. Da metà 2008 invece si è iniziato a ballare: l'allargamento della forbice di tasso sui mercati tra i titoli sovrani e quelli più rischiosi ha costretto le banche a svalutazioni di rilievo. Nei bilanci delle varie Unicredit, Intesa, Mps e giù a scendere la cifra sarà di qualche miliardo. Poco rispetto agli stranieri, numeri che non guastano davvero i profitti 2008, che a livello di sistema dovrebbero calare di un terzo.
Da gennaio, però, il ballo è diventato una tarantola: minori utili e rischi emergenti hanno ridotto all'osso i patrimoni delle banche, già assottigliati dalle passate fusioni. Proprio Unicredit, fino al 2007 vantata da tutti come unico operatore capace di sfondare all'estero con una campagna di fusioni roboante nell'Est Europa, oggi soffre più di tutti la crisi nell'area, e l'avere sviluppato un ambizioso e sofisticato modello transnazionale che la coinvolge in tutti i dossier sgraditi. Il gruppo vale 13,5 miliardi, quasi metà della rivale Intesa Sanpaolo (che acquisizioni estere ne fece poche, pur provandoci molto). Per questo quasi nessuno - tranne Ubi, Bpm e Mediobanca, a quel che si sa - distribuirà dividendi, specie in denaro. Si fa provvista, perché d'ora in poi la trasformazione delle turbolenze finanziarie in recessione globale farà imbarcare ai prestatori perdite su crediti e sofferenze non più registrate da anni. E a fine 2009 sarà molto archiviare utili dimezzati, salvo sorprese (in tal caso, perdite). L'ufficio studi di Intermonte stima che le banche italiane ridurranno del 70% i profitti a fine anno. A quel punto la "diversità bancaria" italiana potrebbe rivelarsi un'espressione più che altro retorica.
Ma il vero problema, quello che può non far avverare la profezia di Berlusconi, dopo vent'anni in cui quasi tutti gli istituti sono stati privatizzati - e si sarebbe detto con successo, almeno fino a un anno fa - riguarda il patrimonio. Nei marosi della crisi operatori e istituzioni vogliono solidità patrimoniale crescente, mentre perdite, accantonamenti e difficoltà nella raccolta indurrebbero le banche a ridurre il capitale di vigilanza misurato dall'indice Core Tier 1. Su questo le nostre banche sono tra le più deboli dell'Occidente.
Uno Stato, specie se ricco di denari e povero di debito pubblico, potrebbe dare una mano. L'Italia, dopo tre mesi di scontri tra governo e banchieri, presterà una decina di miliardi, a tassi salati dell'8,5% e altri gravami. Ciò malgrado, da marzo tutti i grandi istituti - tranne forse Mediobanca e Ubi - emetteranno i famigerati Tremonti bond, convertibili in azioni su loro richiesta. L'unica "nazionalizzazione" per ora è questa, in sedicesimo. Ma di questa ce n'è un dannato bisogno.
(20 febbraio 2009)
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