grazie della domanda, che mi invita a chiarire:
si parte dall'inquadramento professionale, perchè solo da li si può decidere se è necessario aumentare le competenze necessarie a svolgere il lavoro come è semi-inquadrato oggi. Se si opta per il commercio, non ha senso il mio discorso sulle competenze perchè lasciamo il fisco ai fiscalisti, le leggi e i contratti ai giuristi, e la tecnica ai tecnici. Quindi inquadrati come commercianti a tutti gli effetti, luoghi di incontro tra domanda ed offerta, non competerebbero a noi certi controlli e certe responsabilità (sostituti d'imposta dipendenti, ad esempio). Saremmo degli imprenditori, e in quanto tali, liberi di fare imprenditoria con una necessaria riforma in merito alle incompatibilità tipiche invece dei professionisti. E qui si possono creare strategie mirate (di categoria o meno) che si incentrino cioè sulla quantità del venduto, che è quello che fa fatturato, e alla qualità, come semplice componente che ci fa vendere di più o di meno rispetto alla concorrenza. Un venditore di televisori cioè, si preoccupa della qualità di ciò che vende, ma non fa mica un corso di elettronica per vendere televisori...e oltre ai televisori può vendere anche banane, nessuno glielo vieta.
Se invece si opta per il professionismo, allora l'esame in CCIA non è più sufficiente perchè tra noi ci sono un mucchio di asini e di delinquenti che rovinano la gente percependo laute provvigioni per aver fatto mal spendere i risparmi di una vita. Quindi in tale configurazione (quella che preferisco ovviamente, perchè la ritengo l'unica che non può essere sostituita da altri canali commerciali, perchè risente meno della concorrenza indiretta, perchè rende meno antieconomica e funzionalmente sensata la figura del mediatore nella società odierna) bisogna pretendere di più in termini di competenze, e di accesso (laurea, maggiori responsabilità, maggiori pene per chi sbaglia) cioè sbarramenti che vedano un rifiorire di questa professione al fine di ottenere fiducia pubblica, che oggi non abbiamo.
si parte dall'inquadramento professionale, perchè solo da li si può decidere se è necessario aumentare le competenze necessarie a svolgere il lavoro come è semi-inquadrato oggi. Se si opta per il commercio, non ha senso il mio discorso sulle competenze perchè lasciamo il fisco ai fiscalisti, le leggi e i contratti ai giuristi, e la tecnica ai tecnici. Quindi inquadrati come commercianti a tutti gli effetti, luoghi di incontro tra domanda ed offerta, non competerebbero a noi certi controlli e certe responsabilità (sostituti d'imposta dipendenti, ad esempio). Saremmo degli imprenditori, e in quanto tali, liberi di fare imprenditoria con una necessaria riforma in merito alle incompatibilità tipiche invece dei professionisti. E qui si possono creare strategie mirate (di categoria o meno) che si incentrino cioè sulla quantità del venduto, che è quello che fa fatturato, e alla qualità, come semplice componente che ci fa vendere di più o di meno rispetto alla concorrenza. Un venditore di televisori cioè, si preoccupa della qualità di ciò che vende, ma non fa mica un corso di elettronica per vendere televisori...e oltre ai televisori può vendere anche banane, nessuno glielo vieta.
Se invece si opta per il professionismo, allora l'esame in CCIA non è più sufficiente perchè tra noi ci sono un mucchio di asini e di delinquenti che rovinano la gente percependo laute provvigioni per aver fatto mal spendere i risparmi di una vita. Quindi in tale configurazione (quella che preferisco ovviamente, perchè la ritengo l'unica che non può essere sostituita da altri canali commerciali, perchè risente meno della concorrenza indiretta, perchè rende meno antieconomica e funzionalmente sensata la figura del mediatore nella società odierna) bisogna pretendere di più in termini di competenze, e di accesso (laurea, maggiori responsabilità, maggiori pene per chi sbaglia) cioè sbarramenti che vedano un rifiorire di questa professione al fine di ottenere fiducia pubblica, che oggi non abbiamo.
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